La prima immagine che ho del terremoto è quella di una donna. Avrà avuto settant’anni. La incontro la sera del 6 aprile. Piazza D’Armi non è ancora la grande tendopoli che diventerà nei mesi successivi. C’è un silenzio irreale, ma sopratutto un freddo pungente. Lei mi si avvicina, ha una coperta sulle spalle, trema. Poi mi dice: “Ho bisogno di medicine perché soffro di cuore. Sa dove posso trovarle?”. Quella donna non l’ho più incontrata. Ma quegli occhi me li ricordo ancora.

Dal 2009 è stato scritto di tutto su L’Aquila. Un interesse che oggi a livello nazionale sembra essersi quasi esaurito. Se non fosse per gli anniversari o le scosse che continuano ad allarmare la popolazione. Ecco allora che si riaprono i taccuini e si cercano i numeri di telefono, si fanno bilanci su cosa è stato o non è stato, su chi è buono o cattivo, su chi è rimasto o se ne è andato.

Nel nostro racconto non troverete nulla di tutto questo. Troverete solo le testimonianze di chi ogni giorno vive dentro la storia de L’Aquila: donne, mogli, madri che nei loro rispettivi campi inseguono una quotidianità che continua a sfuggire, arrabbiandosi, angosciandosi, ma sperando che prima o poi qualcosa possa cambiare.

Perché scegliere le donne? Potremmo rispondere in diversi modi: la verità è che è stato un percorso naturale. Forse “predestinato”, come quello che mi ha fatto rincontrare, dopo dodici anni, Gianpiero Corelli. Ravennate come me, entusiasta come me. Lavoravamo in un quindicinale. Io scrivevo, lui fotografava. Ci siamo persi di vista per poi ritrovarci due estati fa ad Herat, in Afghanistan.

Da quell’incontro è nato questo progetto. Lui aveva già realizzato diversi reportage, era da anni impegnato a fotografare l’universo femminile, e voleva documentare la storia del terremoto che gli avevo raccontato.

Da parte mia, il desiderio di descrivere quanto avevo visto e vissuto. Ci avevo provato più volte, senza mai trovare la chiave giusta. Ma sapevo che le parole che mi interessavano erano tenacia e determinazione, speranza e rinascita.

Da lì alle “donne de L’Aquila” il passo è stato obbligato.

Spazio dunque alle emozioni che le immagini meglio di qualsiasi altra parola posso trasmettere. Immediate e sincere. Emozioni che abbiamo vissuto in una fredda settimana di gennaio con la neve che non ci dava tregua. Capendo le ragioni dell’architetto Alessandra Tacchin nel dire: “L’Aquila è una città che non conosce vie di mezzo. O non ti dice nulla, o ti fa emozionare e ci resti legata per sempre”.

Se c’è un destino che mi ha fatto incontrare di nuovo Corelli, forse c’è anche un destino che mi ha portato a L’Aquila. Un percorso personale e professionale in cui ho trovato non solo persone da intervistare, ma anche amici veri.

Le chiacchiere al bar di Natalia Nurzia, il bicchiere di vino alla cantina del Ju Boss, la passeggiata alla Villa Comunale o alla Basilica di Collemaggio sono diventati appuntamenti ormai fissi nei miei viaggi aquilani. Viaggi che molto spesso mi hanno fatto commuovere ripensando alla grinta di chi, pur avendo perso tutto, si sforza di sorridere guardando al futuro.

“Jemo ’nnanzi”, “andiamo avanti”, dicono gli aquilani in un dialetto che non riesco ancora a pronunciare. Orgogliosi e gelosi di quell’amore profondo che li lega alla loro terra. Ed è proprio quell’orgoglio che vogliamo raccontare: un piccolo tributo a chi non c’è più e a chi è rimasto. Un piccolo tributo a chi, nonostante tutto, a L’Aquila continua a crederci ancora.

Giampiero Corelli – Ilaria Iacoviello

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