NE LA PITTURA TENER LO CAMPO

DANTE CI GUARDA

FOTOGRAFIE DI GIAMPIERO CORELLI

Presentazione Franco Zabagli

I monumenti ai Padri della Patria finiscono per lo più nell’indifferenza, quando non nel dileggio e nella contestazione. Emanati dal potere di turno, segnano col bronzo o col marmo un lembo di spazio dove la vita vera continua a scorrere, e che sempre si prende la sua rivincita, anarchicamente. Non è necessario un oggetto contundente o la bomboletta spray. Basta un inoffensivo uccellino che si posa sulla testa dell’eroe, del santo, del poeta, del navigatore, e tutta la retorica del simulacro va in briciole.

Sfogliando il reportage fotografico di Giampiero Corelli, Dante, il Padre Dante, sembra però aver eluso questo destino postumo. O almeno, viaggiando per l’Italia contemporanea in cerca delle sue effigi, Corelli ha saputo cogliere più di una volta l’occasione di un contatto cordiale e poetico fra il monumento e i passanti. Succede quando le sue inquadrature si allargano a comprendere gente comune nelle piazze di Verona, Padova o Napoli, ragazzi a Ravenna in gita scolastica, una festa di bambini e bolle di sapone davanti ai gradini di Santa Croce. In mezzo a loro, la figura di Dante attenua il suo corruccio e s’immedesima nella nostra quotidianità.

Allo stesso tempo, con una prospettiva inaspettata dello scatto e il nitore del suo bianco e nero, Corelli restituisce al Poeta il segno di una superba testimonianza morale, rimasto inalterato nonostante le vecchie intenzioni celebrative, la goffa stilizzazione neogotica, gli orpelli da Ballo Excelsior dell’iconografia postunitaria. E per qualche oscura ragione la gente comune sembra accorgersene. Anche gli adolescenti in posa con la t-shirt di Superman alla soglia del Dantis Poetae Sepulcrum.

Forse è vero: Dante ci guarda. Con lo sguardo onnicomprensivo che nessun altro ha mai avuto verso la totalità dell’Italia. E nella realtà di chi è ancora vivo in questo mondo, non ci sarà nulla di troppo umile agli occhi di chi ha saputo immaginare l’Inferno. Neanche i clochard, gli sbandati, gli artisti di strada che declamano mascherati le terzine del Conte Ugolino. Dante forse continua a guardare l’Italia – e sarebbe un giusto esercizio, per noi, immaginare che lo faccia davvero. Anche quando non c’è nessuno intorno a queste sue statue, Dante resta il testimone severo di quello che ancora siamo. Un po’ ovunque, presso portici antichi dove risuonarono un tempo i suoi stessi passi, sulle acque di Venezia che pure lui ha attraversato, contro i monti solenni della Lunigiana dove fu ambasciatore. Sempre dentro il paesaggio di quell’Italia il cui nome, anche nel furore dell’invettiva e dello scandalo, Dante pronuncia con l’amore di una appartenenza fatale, come quando migranti antichissimi venuti da Troia la riconobbero finalmente all’orizzonte dalle loro navi.

Franco Zabagli

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