Trentasei scatti, a colori e in bianco e nero, dei fotografi Giampiero Corelli e Shobha, frutto dell’ultima e rinnovata collaborazione tra la coppia artistica.
L’esposizione racconta il punto di vista dei due fotografi sulla zona Darsena, attraverso le immagini del reportage condotto durante l’estate.
Corelli percepisce la zona come un luogo indefinito e cerca di dare risalto a tutto ciò che si contrappone al vuoto di quel paesaggio: esseri umani rari e isolati che attraversano lo spazio, lo circumnavigano e che solo per brevissimi attimi condividono. “È un territorio – dice – dove non esistono identità precise, indefinito, e in parte questo emerge dal mio lavoro. Ho fotografato lo spazio che si riempie e prende vita. Quest’ultimo aspetto è quello che m’interessa e ho solo fatto da spettatore attento. Mi piacerebbe che si pensasse di costruire in questo luogo un territorio di amore e passione, dove le persone possano stare bene insieme”.
Shobha, con le sue fotografie poetiche e nostalgiche, in severo bianco e nero, invece, reinterpreta la decadenza dei luoghi, il fascino degli edifici abbandonati all’incuria o rivitalizzati da una natura gentile, le tracce di quella produzione che in un passato non troppo lontano produsse lavoro e vitalità.
Dice la fotografa di quei giorni:
“La città era deserta, quasi tutti i cittadini al mare. Il caldo di quei giorni avvolgeva la darsena di afa e scirocco. Sebbene l’aria fosse umida come a Bombay, il fascino che emanava questo luogo di nessuno mi coinvolgeva nel profondo anche se, con la Leica al collo, una Canon ed una Hassenblad, facevo persino fatica a respirare. Giampiero e io ci siamo divisi i compiti ed i luoghi, per non registrare le stesse situazioni. Lui conosce tutti e si muove come se fosse a casa sua. Potevamo entrare liberamente nelle fabbriche abbandonate e fotografare i vecchi macchinari industriali impolverati, (che mi ricordavano gli ex capannoni della Zisa a Palermo degli inizi del ‘900, abbandonati per decenni, e poi, dalla giunta dell’ ex sindaco Leoluca Orlando, miracolosamente consegnati ad attività culturali).
Ero attratta dalle vecchie fabbriche polverose, dalle disposizioni dei detriti circondati da fiori selvatici, dai grandi cancelli, dai lucchetti arrugginiti, dagli spazi immensi abitati da colombi, e sui muri qualche murale che inneggia all’humor nero e dai grandi silos e capannoni solitari che si rispecchiano nell’acqua della darsena. Ombre lunghe sull’asfalto segnano territori, fabbriche imponenti che non funzionano più’ mi ricordano stranamente l’imponenza e la bellezza dei templi greci. Ho avuto l’onore di attraversare un pezzo glorioso di storia, le mie fotografie stavano fermando i resti di memoria di chissà quanta vita vissuta, quanto lavoro svolto, quanti progetti.
Pur sapendo che nulla sarà più come prima, e che, anzi, tutto dovrà rinascere da questi silenzi. Risate di bambini su prati verdi, famiglie intere, giovani e vecchi, turisti…da qui nascerà altro. Altro lavoro, altra arte sulla memoria di quello che fu”.